Un giorno, lontano nel tempo, mi sono ritrovato a camminare lungo una spiaggia, a percorrere il confine mutante tra terra e mare su una labile striscia di sabbia senza nome, a tratti posseduta dal mare, a tratti posseduta dalla terra. Il vento soffiava dal mare con veemenza. Banchi di nuvole si rincorrevano veloci nel cielo azzurro oscurando, a intervalli irregolari, la luce solare. La brezza marina frizzava sul viso, solleticando i pensieri e proiettandoli verso mondi fantastici e sconosciuti. Un' esile tronco di legno, portato a riva dalla forza tempestosa del mare, mi sorreggeva nel cammino solitario. Un passo dopo l' altro, affondando i piedi nella morbida sabbia gialla. Le narici erano intrise degli odori intensi sprigionati dagli elementi di quel luogo. Respiravo profondamente, trattenendo il piu' a lungo possibile l' essenza naturale composta dai cespugli di pitosforo, dai granelli di sabbia, dalle onde schiumose portate a riva dai marosi del mare, dai cirri deformi che s' agitavano nel cielo azzurro. Lungo quella spiaggia, tra le basse dune di sabbia, svettavano esili aste con bandiere multicolori. Drappi di stoffa piegati dal vento che si distendevano flessuosi nell' aria, macchiando il cielo di striature colorate. Un luogo dalla fluidità indefinita e remota. Un fascino misterioso e surreale sprigionava da quella striscia di spiaggia sottile e deserta. Presagivo un avvenimento, sicuro che il concentrarsi di quegli elementi semplici ed unici nella loro bellezza, avesse qualcosa da svelare. La fune in cui inciampai, mimetizzata nelle striature della sabbia, rivelo' i miei presentimenti.
Caduto a terra, sorpreso, levai lo sguardo. Un' enorme sagoma scura, improvvisamente comparsa, si stagliava sullo sfondo lucente del cielo. Abituata la vista al contrasto, definii la grande macchia nera. Ero di fronte ad una costruzione. Un' alta torre, dai profili smussati e irregolari, si innalzava possente dalla sabbia nello spazio infinito del cielo azzurro.
Affascinato dall' apparizione, cominciai a camminare attorno a quell' enorme pilastro. Una trama di conci grezzi di pietra gialla formava la pelle della struttura, fitta e invariabile. Al secondo giro misurai mentalmente coi passi l' ingombro a terra, rilevando cosi la planimetria quadrata. Venti piedi per lato. L' altezza, infinita, sfuggiva ad una misurazione pratica. Ogni altra valutazione poteva solo perdersi nell' immensità del cielo. Le bugne di pietra rivestivano interamente la struttura, priva di porte, priva di finestre. Nessuna apertura. Un solido obelisco di pietra, legato con la fune alla spiaggia, comparso dal nulla.
Camminando ai fianchi della costruzione, tastavo con mano la superfice sbozzata delle pietre, a cercare una scaglia, una fessura, una grappa di ferro, qualsiasi elemento variabile su quel tessuto rigoroso e infinito. Ma il labirinto intrecciato dei ricorsi e dei conci non mostrava alcuna interruzione, inghiottito dalle nuvole del cielo. Eppure quella costruzione doveva avere un accesso. Forse il segreto stava proprio nella fune in cui ero distrattamente inciampato pochi attimi prima. Tornai indietro, ripercorrendo le orme lasciate sulla sabbia, e m' aggrappai ferocemente a quel cordone ombelicale che legava la torre alla spiaggia. Tirandola, mi sentii proiettare nel vuoto. Ero finalmente entrato.
Un pozzo, fresco e oscuro, costituiva l' interno della torre. Abituato gli occhi alla penombra, volsi lo sguardo attorno, sulle quattro pareti che formavano il ristretto perimetro di quel vuoto; poi verso l' alto, sul cunicolo semibuio, rischiarato solamente da una flebile luce proveniente dall' alto, un piccolo puntino luminoso perso nell' indefinito cannocchiale nero. Toccai le pareti. Come all' esterno, la stessa maglia di conci e commenti, resi ancor piu' tenebrosi dalla fioca luce che scivolava dall' alto sulla loro pelle scabra. Lastre di pietra dalle forme incerte e irregolari formavano la pavimentazione, definendo il margine inferiore della costruzione. Il fondo del pozzo. Da qui, una scala metallica s' innalzava lungo i bordi delle pareti. Decisi di salire quella scala per entrare, con quel movimento, nelle viscere del corpo di pietra, e iniziare il viaggio alla scoperta della torre di pietra.
Cominciai a salire la prima rampa, i passi rimbombanti su gradini metallici definiti nella loro conformazione. Verso l' alto, alla seconda rampa, un' altra ancora, e quella successiva. Ogni rampa scandita da interminabili gradini. Fu in questo tragitto iniziale che m' accorsi che un leggero soffio d' aria, costante e continuo, spirava nel centro del pozzo. Bastava sporgere il braccio verso il vuoto centrale per sentire quel fluido scorrere come liquido caldo sulla mano. Quell' invisibile cordone magnetico mi accompagnava nella salita, un passo dopo l' altro. Completai parecchi giri attorno al pozzo, incapace di calcolare l' altezza percorsa, sempre nella penombra. Salivo lentamente, appoggiandomi ai conci perimetrali, perché mi ero accorto che le scale erano prive di parapetto verso il vuoto centrale. La penombra rendeva il pozzo meno pericoloso, inghiottendo nella profondità le altezze percorse e quel vuoto, che se caduto dentro, avrebbe potuto espellermi inevitabilmente dalla torre. Finalmente, ad un piano, cominciai a trovare minuscole aperture sui muri, ricavate tra i conci di pietra.
Le piccole feritoie lasciavano entrare filtri di luce ben delineati ma, inspiegabilmente, nessun alito d' aria. Non era da queste deboli fessure che il vento s' incanalava nel pozzo della torre. Fuori, in lontananza, racchiusi dalle piccole diapositive delle feritoie, rivedevo l' azzurro del cielo ed il blu intenso del mare, riprendendo per pochi attimi legame con il mondo esterno. La salita cominciava dunque a farsi interessante, rivelando ad ogni giro i caratteri e le variabili di quella costruzione. Come un visitatore in un luogo sconosciuto, cominciavo a conoscere gli spazi e svelare le sorprese del grande pilastro di pietra. Le rampe di scale metalliche interrompevano il loro sviluppo con ballatoi di pietra perimetrali al grande pozzo quadrato. Da questi piani di sosta si aprivano, uno per lato, stretti e lunghi corridoi orizzontali, nuovi passaggi che roteavano l' ordine d' ascesa verticale seguito fino a quel momento, ampliando il cammino sulle nuove direttrici. Corridoi che a vista d' occhio percorrevano distanze superiori ai venti passi che avevo misurato all' esterno della torre come limite della costruzione. Un' altra variabile sorprendente di quella torre di pietra, tanto solida nella conformazione materica quanto flessibile nell' alterazione spaziale. Cominciavo a pensare che quel soffio d' aria che percorreva ininterrotto le viscere del pozzo, poteva avere una correlazione con la fune che ancorava la torre alla sabbia all' esterno e con la deformazione delle distanze spaziali all' interno. Ogni corridoio portava sull' architrave un piccolo riquadro di pietra bianca su cui erano niellati simboli bronzei di un linguaggio sconosciuto. Come le lettere sulle costole dell' enciclopedie conducono alla scoperta di saperi sconosciuti, i simboli introducevano probabilmente ai contenuti dei nuovi spazi. Si trattava solamente di scoprirli. Sui corridoi orizzontali, che si dipartivano come strade, si affacciavano minuscole celle collegate tra loro da piccoli passaggi. Per passare, dovevo chinare il capo, forse un auto da fe’ voluto dall' artefice della costruzione. Attraversavo quelle minuscole porte con la curiosita’ di un pellegrino che entra in una nuova città. Percorrevo quei minuscoli labirinti come i vicoli sconosciuti di un vecchio quartiere, senza timore di perdermi, curioso di scoprirne i misteri. Le stanze che si affacciavano sui percorsi erano cosi organizzate in cicli e accomunate nei caratteri. Nel primo livello in cui decisi di addentrarmi, le piccole celle erano intrise di profumi. Una stanza era pervasa dall' eliotropio, un' altra dall' odore acre dell' incenso, un' altra ancora diffondeva l' aroma intenso e delizioso del cipro e del sarcanto. Quelle essenze catturavano l' olfatto, indicando con i loro aromi inebrianti il percorso invisibile da seguire. Una piccola citta’ dai vicoli speziati e dalle case profumate, involucri di pietra pronti a sprigionare i loro aromi estasianti. Il labirinto profumato riconduceva all' uscita sui ballatoi. Il grande architetto della torre aveva studiato il percorso nei minimi dettagli. Nessun sentiero si biforcava nel caso. Nel pozzo di ventilazione, riprendevo il cammino sulle scale di ferro, sempre attento a non cadere nel vuoto centrale. Mentre salivo - l' unica certezza logica che mi era rimasta di fronte alle improvvise meraviglie della torre era quella che mi spingeva a percorrere lo spazio unicamente verso l' alto - il soffio d' aria era costante. Una fonte di energia invisibile che percorreva la struttura verticale, scorrendo vitale nelle viscere. A volte ero colto dal desiderio di lanciarmi nel vuoto del pozzo e aggrapparmi a quella corda d' aria per svelarne i misteri. Ma nel dubbio di potermi ritrovare in pochi attimi, come ero entrato, espulso dalla costruzione e privato delle sue meraviglie, soffocavo il delirio nel silenzio glaciale della torre, proseguendo il cammino. Sbarcavo in un' altro piano, con altri corridoi, con altre celle.
La casa dei metalli era costruita con pareti di bronzo e di rame ossidato, con lastre argentate, con traversi in lega di titanio. Elementi disposti come quinte teatrali a interrompere ogni prospettiva dello sguardo. Matasse sferiche di fili di rame peduncolavano dall' alto, remoti pianeti che emettevano barlumi azzurrognoli di luce elettrica. Quella luce artificiale disegnava saette colorate sugli ambienti freddi e glaciali come la loro materia. In quel clima, le lastre metalliche ricoperte di una sottilissima patina umida, registravano le impronte digitali della curiosità tattile del viaggiatore solitario. Percorrevo ininterrottamente quella torre, senza desiderio di cibarmi. Ad un livello superiore, lo spostamento corporeo da una stanza all' altra metteva in funzione meccanismi musicali. Le note diffuse da microfoni invisibili, mi facevano danzare nel vuoto di quella microcittà, sempre piu' catturato dalla magia spaziale di quella costruzione sorprendente e affascinante. Su tessuti bianchi e leggeri erano proiettate figure immobili, divinità sacre e pagane a me sconosciute; al mio passaggio le note musicali iniziavano alla vita quelle figure, cadenzando gesta e movimenti sui lembi di stoffa. Le stanze non erano solitamente vuote. In alcune, semplici oggetti dalle funzioni conosciute arredavano spazi minimali e rigorosi. Un comodo distensore di morbida pelle nera, un emettitore di luce caleidoscopica dai mille vetri colorati, un portaoggetti di pistofan rosso sospeso nel vuoto, un appoggiaglutei circolare con lo schienale recrinabile blu cobalto, posti spesso nel centro delle celle, garantivano nel loro assoluto minimalismo un piacevole turbinio di emozioni. In una delle stanze, tra presente e futuro, il ricordo di una vita remota lasciava le traccie nei pochi frammenti di vetro rotto sparsi a terra attorno a dei candidi petali di magnolia. Il quadro di una natura ormai morta, abbandonata alla vita silente. Quando la stanchezza mi assaliva, un fascio di cotone lavorato faceva da morbido giaciglio. Avevo trovato il tessuto rinchiuso a pressione dentro nicchie metalliche ricavate nei conci di pietra. Qui stavano anche le scatole di sopravvivenza - cosi era inciso, nelle mia lingua, sopra i coperchi di latta - che contenevano porzioni di cibo industriale. Sulle scatole erano riportate le indicazioni per la cottura del cibo: lunghi cannelli, a guisa di spiedo, avvicinati al flusso d' aria calda al centro del pozzo permettevano la cottura immediata delle porzioni. Mangiavo rapidamente. Riposavo. Appena sveglio ripartivo, sempre verso l' alto, accompagnato dal soffio sottile del cilindro ventoso centrale. Un ordine a me incompreso distingueva le varie parti di quella città implosa nella torre di pietra. I simboli incisi sugli architravi, se svelatone il significato, avrebbero potuto condurmi alla conoscenza del linguaggio della torre. Come un viaggiatore incapace di tradurre la lingua universale, mi addentravo in quei paesi remoti, ammutolito e privato di comprensione, registrando i luoghi della torre solo attraverso lo sguardo degli occhi. Solo questo mi era concesso.
Arrivato all' ennesimo spazio di sosta, uno schermo di carta leggera occludeva l' accesso al corridoio. Il ballatoio qui si interrompeva. L' unica direzione possibile era celata dietro lo schermo di carta. Forse avevo raggiunto l' ultimo livello della torre di pietra, non piu' infinita. Alzai lo sguardo. La stessa trama di lastre di pietra dalle forme incerte e irregolari che formavano la pavimentazione del margine inferiore della costruzione, proiettate specularmente attraverso un improbabile centro della distanza infinita del pozzo ventilato, formavano ora il tessuto del margine superiore della torre. La consapevolezza di trovarmi probabilmente al termine del viaggio mi faceva esitare nel varcare la soglia di carta. Mi guardai ancora per qualche attimo attorno, come se fossi sicuro di non rivedere mai piu' quei muri di pietra, quelle scale metalliche dai gradini certi e interminabili che avevo percorso con energia curiosa e divertita, quelle semplici pareti che avvolgevano le microstanze dalle mille sorprese e collegate da percorsi infiniti. Per un attimo, osservando il flusso verticale d' aria che continuava a scorrere nel centro del pozzo, rividi passare davanti ai miei occhi ogni attimo del viaggio. Lo sguardo aveva riavvolto e scorso in brevi istanti le interminabili ore passate nella torre. Ed ora cercavo, con quei veloci sguardi, di memorizzare per sempre quello spazio fantastico che avevo scoperto e percorso. Per non dimenticarlo.
L' ultimo ballatoio s' affacciava sul vuoto profondo e scuro del pozzo. Per la prima volta da quando ero entrato in quella costruzione, volgevo lo sguardo verso il basso. Duro' solo un istante; le vertigini mi spinsero all' indietro, verso lo schermo. All' impatto improvviso con la mia figura, la porta di carta si annullo'. Ero entrato in un' enorme spazio voltato a botte, dalle dimensioni definite e grandiose, con pareti rivestite di scaffali colmi di libri. La biblioteca. Uno spazio che mai avrei creduto di trovare nella torre, non per le dimensioni voluminose che sapevo ormai capaci di deformarsi sorprendentemente al di fuori delle dimensioni reali della piccola torre quadrata, ma per la sua destinazione. Un mega contenitore di sapere in quella torre completamente disabitata, poteva solo essere un altro degli artifici intellettuali con cui l' ideatore della costruzione avvicinava al mistero della conoscenza il viaggiatore solitario. Il mio percorso si era spostato dunque dalla pesantezza delle scale di ferro alla leggerezza delle pagine di carta. E nel chiasmo strutturale, i percorsi s' incrociavano con la sensualità delle microcittà implose nella torre e con il sapere razionale della biblioteca. Gradinate di volumi colavano cascate di pagine scritte dai fianchi delle alte pareti. Tappeti di lettere formavano distese di parole, oceani di significati.
Sugli scaffali, libri di piccole e grosse dimensioni, dalle rilegature pregiate e multicolori, dalle costole ricoperte di minuscoli granelli di polvere grigia e luccicante. Libri dell' anima e del pensiero, dello spazio e del tempo, del ricordo e della visione, del sogno e del delirio metafisico. Libri dalla saggezza occulta e dalle verità negate, libri proibiti e licenziosi. Libri, libri, migliaia di libri. Alloggiati fuori dagli scaffali tra le file delle gradinate, aperti casualmente dallo scorrere del vento caldo, invisibile lettore che sfogliava col suo spirare le pagine. Migliaia di tomi finiti li chissà come, misteriosi nella loro apparizione come la torre alla deriva sulla spiaggia che li conteneva. Percorrevo le gradinate per l' ennesima volta affascinato al cospetto delle meraviglie cartacee, sbirciando ogni costola, ogni titolo di quei volumi, velocemente per accumulare visivamente ogni segreto di quel tesoro inaspettato. Ai bordi delle pareti, in alto, un nastro scatolare a sfondo nero su cui scorrevano caratteri al quarzo costituiva il fregio ipertecnologico di quell' architettura a matrice classica. Le lettere colorate descrivevano aforismi appartenuti ai grandi pensatori dell' universo. Scorrevano rigide e continue dentro quel nastro nero, concentrando nelle supervelocità temporali del meccanismo interi millenni di sapere lento e discontinuo. La biblioteca, a differenza degli altri cicli di stanze, era illuminata con luce proveniente dall' alto. Una grossa apertura mediava la luce senza disturbare la vista, climatizzando l' intero edificio col soffice soffiare del vento caldo, che da li entrava. Il flusso d' aria era raccolto da un grosso imbuto di rame ed in parte soffuso attraverso dei piccoli fori nel metallo nella biblioteca, in parte iniettato attraverso un convertitore d' energia cilindrico nel pozzo sottostante. Da qui dunque il vento calava nelle viscere della torre per percorrerla ininterrottamente, diramandosi negli spazi indefiniti dei corridoi e delle stanze, fino al limite inferiore della costruzione, alla fune sulla spiaggia.
Una scala tortile avvolgeva l' imbuto metallico. Saliva verso l' alto addentrandosi nella grande apertura sulla volta a botte. Oltre il lucernario, lo spazio aperto del cielo. Avevo finalmente raggiunto la vetta della torre. Ed ero di nuovo fuori all' aria aperta, dopo un tempo indefinito passato nella torre chiusa. Un piano delimitato, ma senza parapetti ne muri, costituiva una semplice terrazza aperta nel cielo. Al centro, una grossa vela catturava la forza del vento. Un triangolo ampio e definito che roteava su un perno cilindrico seguendo la corsa dei venti, per privarli di preziosa energia. Osservai meravigliato quel marchingegnio, passando parecchi minuti a guardare la varibilità dei movimenti della vela provocati dallo spirare del vento. Attimi di lentezza e di immobilità si alternavano a veloci scatti ed improvvisi movimenti. Un vaglio a forma di cono, anche questo metallico, convogliava l' energia del vento nel sottostante imbuto. Da li l' aria calda fluttuava come una corda nelle viscere del pozzo portando l' energia negli spazi della torre. Quell' enorme vela indeformabile costituiva il motore del misterioso edificio, capace di generare gli spazi e le loro definizioni e alterazioni; generava il movimento della fune da basso sulla spiaggia.
A pochi passi dalla grande vela, una passerella metallica larga pochi decimetri si proiettava dalla torre di pietra nel vuoto, penetrando il manto oscuro di una notte ormai dimenticata. Davanti a me una sagoma, indefinita e sfuggevole come la prima visione che avevo avuto della casa nel vento, mi aspettava. Abbracciai forte quella figura, e mi sentii proiettare ancora una volta nel vuoto, avvolto solo dal calore del vento. Piu' in là mi voltai: le piccole luci della casa e delle stelle illuminavano il cielo. Figure opaline guardavano con meravigliosa dolcezza.
Racconto di Marco Guzzon Lucca 1991